Finanza comportamentale: andare oltre le emozioni
13 ottobre, 2020
6 min
La finanza comportamentale dimostra come di fronte all’incertezza e al rischio, le nostre scelte siano fortemente condizionate dall’irrazionalità.
L’avversione alla perdita
Uno dei comportamenti che incide maggiormente sulle scelte degli investitori è l’avversione alla perdita.
Quest’ultima si manifesta nelle persone che si tengono lontane da situazioni percepite come “rischiose”, sebbene si trovino di fronte a due possibili alternative: quella di guadagno e quella di perdita.
L’avversione alla perdita negli investimenti
Questo pregiudizio cognitivo porta le persone a evitare gli investimenti senza nemmeno provare a capirne metodi e opportunità. Si preferisce evitare una perdita che ottenere un guadagno. Perciò si arriva a rinunciare a un investimento statisticamente vantaggioso perché l’idea di perdere è troppo spaventosa. Oppure offusca la nostra capacità di giudicare un asset in base al “costo opportunità”.
In alcuni individui la percezione della perdita è due volte e mezzo più acuta rispetto a quella di un guadagno.
In ogni caso, se non riusciamo a sopportare la perdita e a gestire questa emozione, è bene valutare attentamente se intraprendere un percorso di investimento. Come abbiamo visto, ogni investimento ha una percentuale di rischio più o meno alta e non ne è mai esente.
L’overconfidence
Il concetto di autoinganno è un limite alle nostre opportunità di imparare. Quando si pensa erroneamente di sapere più di quanto si sappia in realtà, si tende a perdere di vista informazioni di cui si ha bisogno per prendere una decisione consapevole. Si parla allora di overconfidence, ossia quando ci si affida unicamente alla propria intuizione e a nozioni superficiali per formulare previsioni.
La realtà dei mercati non è una realtà granitica, sono continuamente influenzati da fattori esterni ed interni che vanno monitorati. Credere di saper cogliere ogni occasione è la peggior chimera su cui basare le nostre scelte finanziarie.
Considera il mental accounting
La teoria del mental accounting suggerisce che suddividiamo mentalmente i soldi con criteri legati alla provenienza o all’utilizzo. Assegnamo una determinata funzione ad ogni “cassetto” e li consideriamo come compartimenti stagni.
Il mental accounting è stato largamente studiato dalla finanza comportamentale in particolare da Richard Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017.
La cosa folle è pensare che gli umani agiscano in modo logico tutto il tempo.
L’effetto dote
Tra gli effetti più comuni del mental accounting, c’è l’effetto dote. L’effetto dote dimostra che le persone danno più valore a ciò che possiedono, rispetto a quello che non possiedono.
Per capire meglio questo schema comportamentale apparentemente banale, riportiamo un esempio piuttosto famoso. In una classe di studenti furono regalate alcune tazze con il logo dell’università che stavano frequentando. Dopo un sondaggio, emerse che chi aveva ricevuto la tazza era pronto a cederla ai compagni per almeno 6 dollari. Chi invece non l’aveva ricevuta dichiarò di volerla acquistare a un prezzo non superiore ai 2 dollari.
Secondo gli psicologi cognitivi questo errore deriva dalla nostra innata avversione alle perdite. Doverci separare da qualcosa che possediamo è a suo modo doloroso, e pertanto richiediamo una ricompensa superiore al valore intrinseco del bene.
Un’ulteriore distorsione da tenere in considerazione deriva dalla fonte del denaro che stiamo investendo. Per esempio, se il denaro che si utilizza è stato “vinto”, si tende a prestare meno attenzione a come questo viene gestito.
L’età: l’ago della bilancia
Come tutto ciò che è umano, anche i mercati cambiano. Alcuni investimenti vantaggiosi potrebbero non esserlo più tra vent’anni. Per questo, affezionarsi a un asset su cui si è investito è proprio ciò che dobbiamo evitare. Rimanere cocciutamente fedeli a un investimento è un altro bias che la finanza comportamentale ci insegna ad evitare.
Ecco perché è bene valutare un periodico riequilibrio del portafoglio. Dobbiamo riallocare il nostro capitale informandoci sui pro e sui contro di questa decisione, rimanendo fedeli alla nostra strategia iniziale.
Un fattore che incide sullo status quo, ad esempio, è l’età. In ogni fase della vita siamo spinti ad investire per ragioni diverse e con obiettivi altrettanto vari. Oltre al fatto che anche la nostra situazione economica evolve nel tempo. Ad esempio, quando si è giovani, si può volere un rendimento per finanziare i propri studi o viaggiare all’estero. Per questo tendenzialmente si preferiscono asset ad alto rischio, che possono generare un alto rendimento nel breve termine.
Nel pieno della carriera, invece, quando siamo più vicini a percepire un reddito massimo, siamo anche più consci di quelle che sono le spese fisse e gli obiettivi a lungo termine. Alcuni di questi sono, ad esempio, il mutuo, le spese universitarie per i figli o genitori a carico. In questo caso, può aver senso variare il portafoglio di investimento con un maggior numero di asset a basso rischio. Contestualmente aumentare il capitale investito, per aumentare il rendimento.
Giunti alla mezza età, liberi da spese fisse onerose, ci si può spingere su asset più sicuri. Questi ci permettono di rischiare poco e dare priorità alla protezione del patrimonio, massimizzando il reddito.
Conclusione
Il bias individuati dalla finanza comportamentale e analizzati in questo articolo rompono una delle regole cardine dell’economia: la misurazione del costo-opportunità. Non ci resta che lavorare sui di noi per rimanere lucidi nelle valutazioni di investimento, soprattutto in momenti di crisi. Se siamo davvero accorti, riusciremo a cogliere quando questi bias manipolano il mercato e a sfruttarli a nostro vantaggio.