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Cos’è il Delegated Proof of Stake (DPoS)?

7 giugno, 2022

8 min

Cos’è il Delegated Proof of Stake (DPoS)?
Intermedio

La decentralizzazione è fondamentale nel modello economico delle criptovalute: distribuire il potere sulla blockchain tra diversi nodi previene la censura. In mancanza dell’autorità centrale, però, si avrà necessità di sostituirla con un accordo condiviso tra pari. A tale scopo sono pensati i meccanismi di consenso, protocolli per determinare la validità, principalmente delle transazioni, in un network: i più diffusi sono Proof-of-Work (PoW) e Proof-of-Stake (PoS), ma anch’essi hanno dei limiti. Scopriamo quali potrebbero essere e come funziona il Delegated Proof-of-Stake (DPoS): un terzo genere di consenso che potrebbe risolve i problemi di staking e mining.

Dal mining allo staking

Gli spostamenti di bitcoin verranno inseriti immutabilmente nella blockchain relativa, ma solo dopo che il network avrà raggiunto l’intesa sulla legittimità delle transazioni. La loro certificazione dipende dallo sforzo computazionale (Proof-of-Work) dei miner: hardware dalle prestazioni elevate, in grado di sigillare tutte le informazioni in pacchetti, chiamati blocchi, con un nastro alfanumerico chiamato hash, un regalo da parte di Satoshi Nakamoto.

Lo stesso avveniva in Ethereum, prima del Merge e dell’evoluzione in Ethereum 2.0. Questa versione di ETH, infatti, ora usa il meccanismo di Proof-of-Stake per validare le transazioni. Abbiamo già parlato dei cambiamenti introdotti dal PoS, ma potremmo sintetizzarli in “rivoluzione green”: il consenso non si basa più su una risorsa esterna, il consumo energetico necessario al PoW, ma sulle criptovalute bloccate in staking

Entrambi i protocolli, al di là delle differenze, mantengono la blockchain sicura, incentivando la competizione tra nodi con ricompense derivanti dall’autenticazione dei blocchi. Ciò, però, non basta di per sé ad assicurare né l’efficienza del sistema (velocità e scalabilità) né la sua effettiva decentralizzazione. 

I limiti di PoW e PoS

Immaginate di mettere d’accordo una moltitudine di pari sulla verità o falsità di informazioni, soprattutto se hanno un valore economico: il processo sarà tanto difficile quanto lento. Questo, in particolare nel PoW, riduce drasticamente le prestazioni: Bitcoin non può supportare più di 2-5 transazioni per secondo (tps). Tuttavia, BTC è storicamente considerabile una riserva di valore e può scalare utilizzando soluzioni Layer 2.

Sebbene alcune forme di Proof of Stake portino la velocità a diverse migliaia di tps (vedi Avalanche e Solana), vi è un secondo aspetto controverso: le decisioni vengono spesso prese da pochi, tanto nel PoS quanto nel PoW, così come nella finanza centralizzata. Questo contrasta la natura stessa delle criptovalute.

Il mining PoW è, infatti, soggetto all’egemonia di un élite: l’aumento della difficoltà dei calcoli comporta la rinuncia dei piccoli nodi, incapaci di raggiungere l’output di hardware più potenti. Non potendo competere da soli, i miner preferiscono condividere le risorse e formare “mining pool”. Pertanto, in Bitcoin storicamente la somma delle potenze di calcolo di soltanto 4 mining pool è riuscita a raggiungere il 51% dell’hash rate, mentre in Ethereum addirittura 3 mining pool rappresentavano la maggioranza della potenza di calcolo prima di The Merge: il PoW, fin’ora, ha creato disparità.

La situazione nel Proof of Stake è simile: lo staking non giustifica davvero la priorità nella validazione, in quanto semplicemente trasforma il costo dell’energia e degli hardware (PoW) in capitali immobilizzati. Questo protocollo di consenso, sebbene spesso integri un fattore di casualità (random selection), confonde la virtù dei nodi con la loro ricchezza.

La decentralizzazione dei modelli p2p, tuttavia, è compatibile con la finanza: il Delegated Proof-of-Stake (DPoS) è il tentativo di tornare a quell’obiettivo originario di distribuire completamente i sistemi, fino alla radice.

DPoS: potere al popolo crypto

Prima dell’introduzione del meccanismo di consenso del Delegated Proof of Stake, l’elezione dei validatori non è mai stata puramente comunitaria: la community, in alcuni casi, può affidare lo stake a certe entità o soggetti, ma ciò non designa un voto, piuttosto una partecipazione collettiva alla certificazione dei blocchi. L’algoritmo di consenso PoS, come detto, potrebbe poi essere integrato ad un fattore di casualità, ma questa soluzione “mista” è diversa dal reale DPoS.    

Il DPoS ha reso possibile votare attivamente i validatori: i nodi con la migliore reputazione saranno incaricati di preservare l’integrità della blockchain. L’affidabilità di un nodo secondo alcuni è un indicatore più adeguato, migliore della quantità di ricchezza (PoS) o del dispendio energetico (PoW). Il DPoS incentiva infatti la buona condotta dei produttori di blocchi, siccome la community ha il potere di privarli dei privilegi amministrativi. 

Come funziona il Delegated Proof of Stake? Chiunque abbia una quantità minima di token può votare e contribuire al processo di elezione dei delegati (o testimoni) che cureranno le transazioni. I rappresentanti, alternandosi nel forging dei blocchi, distribuiscono parte delle ricompense tra gli elettori, proporzionalmente ai loro voti. Maggiore lo stake, maggiore il peso del voto, ma ogni moneta dovrebbe conferire diritto di parola, indipendentemente dalla quantità: a differenza del Proof of Stake, questo restituisce davvero il potere al network dei singoli. Le diverse forme di DPoS hanno sempre lo stake di token alla base della governance on-chain, ma è la scelta consapevole dei validatori a restituire soggettività e democrazia al protocollo di consenso. 

Il DPoS è stato pensato da Daniel Larimer nel 2014: dopo aver parlato con Sunny King, il Delegated Proof of Stake è stato implementato nel DEX Bitshares e in Steem, da cui sorge il social Steemit. Tuttavia, il suo progetto più famoso è Eos.io, una blockchain per lo sviluppo di DApp, basata sulla criptovaluta EOS.

Cos’è il Delegated Proof of Stake e come funziona

Cardano, Tezos: Proof-of-Stake con delega

I nuovi protocolli Proof of Stake, come anticipato, hanno integrato la possibilità di delegare i token: le piccole quantità possono fluire in stake più grandi, in modo da condividere le ricompense di validazione. Il parallelo con le “mining pool” è palese: le partecipazioni ai network PoS sarebbero ugualmente centralizzate. 

Infatti, senza un numero minimo di validatori, come nel DPoS, il rischio è quello di consegnare il dominio della blockchain ad un microgruppo di staking-pool. La “delega”, in questo caso, non risolve il problema della decentralizzazione, perché non permette di votare, ma solo di partecipare al monopolio. Avendo scoperto come funziona il Delegated Proof of Stake, ora sappiamo che i 21, 101 o 301 delegati che si avvicendano hanno uguali diritti di minting, a differenza dello staking classico, dove l’affidamento dei token è piuttosto un’opzione.

Ad esempio, il protocollo Ouroboros di Cardano permette di delegare lo stake, tanto da formare quasi 3000 staking pool, ma un sottoinsieme ristretto di queste controllano complessivamente il 33% dello stake: un numero importante per la sicurezza di una blockchain PoS, chiamato Nakamoto Coefficient. Il Liquid Proof-of-Stake di Tezos, allo stesso modo, permette la delega dei token, che possono essere svincolati in ogni momento. I “baker” sono più di 400, ma anche qui delle partecipazioni sono detenute da poche entità, di cui 3 sono exchange centralizzati (Binance, Coinbase e Kraken).

proof-of-stake vs delegated proof-of-stake

Il DPoS è criticato per aver affidato ad una cerchia ristretta di rappresentanti la sicurezza dell’intero network, ma i protocolli Proof of Stake e Proof of Work hanno reso ancora più inaccessibile la “stanza dei bottoni”, com’è possibile constatare. Il numero di validatori nel DPoS è limitato ma sono conosciuti, così da rendere i network più veloci e sicuri.

Certamente il rischio della formazione di “cartelli” di delegati, che agiscono per i propri interessi, è una realtà, ma meno minacciosa che nel PoW o nel PoS classico per il limite minimo di validatori. Tuttavia, l’apatia degli stake-holder, che non partecipano al processo di voto, è un’istanza da risolvere. Per questo motivo esiste la condivisione delle ricompense: nella democrazia ideale del DPoS, il candidato esaudisce le richieste popolari, costituzionalmente ammissibili, e gli elettori godono delle promesse mantenute.

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